Swami Veetamohananda

 

Nessuno è un’isola

 

Traduzione della Prof.ssa Franca Mussa

 

 

Quando considerata, dall’esterno, questa Esistenza immobile, voi la chiamata Dio. E quando la considerate dall’interno, la chiamate voi stessi. Infatti, essa è solamente una. Non c’è un Dio   separato da noi, non c’è un Dio superiore a voi, al vostro essere reale. Tutti gli dei sono piccoli esseri per voi, tutte le idee di Dio, del Padre che sta in cielo, non sono che un riflesso di voi stessi. Dio stesso è la vostra immagine” dice Swami Vivekananda.

 

L’anima che è diventata una con il Signore, è forte. Gesù di Nazareth ha dichiarato: “Mio Padre e io, non siamo che uno” e recitò questa preghiera: “Padre, come io sono uno con Te, così fa che siano uno con me”.

Allora viviamo una vita giusta? Vivere una vita giusta significa accettare la sfida del potenziale della vita. Non viviamo forse in modo contrario a questo precetto? Siamo talmente avidi di piaceri che non siamo mai soddisfatti. Stimoliamo i nostri organi di senso fino a che questi diventino insensibili. Non utilizziamo forse degli stimolanti sempre più potenti per immergerci nel piacere?

Difendendo il sé, il corpo si ammala di tensione. Ma la nostra mente vuole sempre andare avanti…

 

Noi siamo più interessati al futuro che al presente.

 

La felicità, può forse essere la garanzia di un lungo futuro senza fine, pieno di piaceri? Possiamo guardare i piaceri dell’Eternità nello spazio di alcuni brevi anni di vita?

Siamo allora in un circolo vizioso? E’ la nostra fame insaziabile di piaceri che ci porta alla frustrazione. La radici della nostra frustrazione sta nella nostra attesa di un futuro immaginario.

 

Ma il futuro non  c’è ancora e non può essere una parte della realtà sperimentata, finché non diventa il presente.

 

Il futuro è fatto di elementi astratti e logiche conclusioni, congetture, deduzioni. Possiamo mangiare questo? Gustare questo? Sentire questo?

Perseguire il futuro rassomiglia a perseguire un fantasma che si ritira continuamente.

Più velocemente lo inseguite, più velocemente egli si salva correndo. E’ per questo che quasi nessuno profitta pienamente di ciò che ha e cerca senza tregua sempre di più.

Così per produrre felicità, dovete fabbricare sempre maggiori piaceri, a patto che un’eccitazione costante delle orecchie, degli occhi e dei nervi, finisce con correnti incessanti di rumori  di distrazioni visive quasi inevitabili. Potete irritare le vostre orecchie con un telefono portatile usandolo in ogni momento e in ogni luogo. I vostri occhi si dirigono senza stancarsi verso lo schermo della televisione, il giornale, il dizionario, la rivista, ecc. Potete possedere automobili rutilanti, andare da persone che restaurano la sensibilità, ecc.

 

C’è tutto per persuaderci che la felicità si trova all’angolo della via. Infine, voi siete completamente frustrati. E diventate progressivamente incapaci di un reale piacere, insensibili alle gioie più intense e più sottili della vita, che sono, infatti, le più comuni e semplici.

 

La domanda che si pone è questa: “Che possiamo fare a questo riguardo?

 

Possiamo colmare la fessura che esiste tra l’”io” e il “me”, tra il cervello e il corpo, l’uomo e la natura e mettere fine a tutti i circoli viziosi. Noi possiamo trovare una sicurezza e una pace reale solo diventando l’Infinto.

Perché la felicità non può trovarsi  nel finito come è detto nelle Upanishads: “na alpam sukhamasti bhumaiva sukkam.

Questa vita elevata è riuscita per mezzo di una vita di bene. Mentre la vita di bene riposa sull’illusione, la vita elevata riposa nell’infinito.

Ogni muro può divenire una porta. Ma è ancora più di questo. Ogni ladro può rubare. E, ancora di più, può smettere di rubare. Può distruggere la sua immagine e crearne una nuova. Essere un iconoclasta della mente oscurata è una virtù modernista, scomodissima, anche se non sembra.

 

Swami Vivekananda dice: “L’uomo ha in lui la facoltà, il potere di trascendere persino il proprio intelletto. Con la pratica dello yoga questo potere aumenta e può allora trascendere i limiti ordinari della ragione e percepire direttamente ciò che è aldilà di ogni ragione.

L’azione dell’etica è stata e sarà nel futuro, non la distruzione delle differenze e l‘instaurazione di una identità nel mondo esteriore, che è impossibile, perché questo porterebbe la sua morte e il suo annientamento. L’azione dell’etica sarà di riconoscere che, malgrado tutte le sue variazioni, questa forza infinita ci appartiene, appartiene a tutti noi, a dispetto della nostra debolezza; è e sarà di riconoscere la purezza eterna, infinita, essenziale dell’anima, malgrado tutto ciò che sembra opporvisi superficialmente.

Il Vedanta dice: “voi siete puri e perfetti ed esiste uno stato aldilà del bene e del male. Esso dice: “ questa è la vostra matura, ed è superiore al bene”. “Il bene non ha che una leggera differenza dal male…”

E’ ciò che, nel nostro modo vedantico di vivere, dobbiamo comprendere e ricordare senza tregua. Nel nostro modo di vivere, dobbiamo esporci costantemente ai raggi penetranti della verità per conservare una prospettiva al nostro pensiero e alla nostra aspirazione.

 

L’avventura interiore perpetua è il segreto.

 

Non è che dobbiamo disprezzare qualsiasi cosa, o infischiarcene di tutto, ma dobbiamo essere sempre in marcia, all’erta e svegli, fino a che la meta sia raggiunta.

L’illusione sta davanti a noi come un sostanza.

 

Dobbiamo essere vigilanti. La vigilanza è superiore al risveglio.

 

Praticare la vigilanza, è restare svegli, anche nell’oscurità di mezzogiorno o della luna di mezzanotte, come abbiamo fatto durante l’eclissi totale di sole nell’ultimo mese d’agosto. Dobbiamo avere il senso dell’humor e vedere il gioco come un gioco. Se pensiamo che una vita elevata sia per una elite, e non per noi, la moltitudine, non per noi francesi, non è Vedanta.

Per il Vedanta, una vita elevata è il destino per ognuno di noi. Un movimento consapevole verso il nostro destino è la vera via spirituale. Se siamo soddisfatti di una normale vita buona, siamo sempre nel fango di un circolo vizioso.

Per comprendere ciò ascoltate questa storia:

“Un saggio arrivo alla porta del cielo e bussò”. Dall’interno una voce domandò: “Chi è?” e il saggio rispose: “Sono io”. “In questa casa” rispose la voce “non c’è posto per te e per me”. Allora il saggio se ne andò e trascorse parecchi anni a meditare profondamente su questa risposta. Tornando alla porta del cielo, la stessa voce fece la stessa domanda e il saggio rispose di nuovo: “Sono io”. La porta rimase chiusa. Dopo qualche anno, ritornò per la terza volta. Di nuovo, la voce domandò:

“Chi è?” E il saggio rispose: “Sono te stesso”. Allora la porta si aprì.

 

Finché non sappiamo che non esiste nessuna sicurezza nel “me” non entreremo in paradiso.

Abbiamo bisogno di un dinamismo interiore che ci spinga a sperimentare ciò che è più vero, più puro e più nobile in noi e manifestarlo nella nostra vita di tutti i giorni.

 

La vita renderà inesorabilmente grande ognuno di noi, un giorno, del tempo infinito. Ma siamo preparati a pagare il presso per una vita elevata?

Sarebbe intelligente trovare oggi il modo di fare deliberatamente, ciò che, in ogni modo, saremo costretti a fare un giorno.

Per quanto desiderabile sia una buona vita, il vero aspirante deve sforzarsi a progredire. Allora soltanto, si accorgerà che una buona vita non è poi così buona dopotutto e che una sedicente sicurezza è nient’altro che schiavitù.

 

Dobbiamo avanzare. Non c’è successo senza un costante movimento. Ascoltate questo magnifico passaggio dei Veda: “La fortuna di un uomo resta seduta finché egli è seduto, si alza quando è in piedi; dorme quando si è assopito; ed è in movimento quando egli si muove. E’ così… E’ camminano che si trovano il miele e dolci frutti”.

 

Com’è strano! Pochi tra noi, sono consapevoli che il miele che otteniamo senza muoverci, è veleno. Il fango è il paradiso dei vermi di terra, non è così? Ma per planare, l’allodola ha bisogno del cielo. Per colui che resta nell’oscurità, cioè nell’ignoranza, gridare sarà il suo solo linguaggio. Per colui che si muove nella tempesta, la folgore diventerà il suo linguaggio. Solo il dinamismo interiore può estirpare le illusioni rispettabili della nostra vita.

 

Ascoltate questa parabola raccontata da Sri Ramakrishna, intitolata “Andate più lontano”: Un giorno, un boscaiolo entrò nella foresta per raccogliere legna. Incontrò un monaco che gli disse: “va più lontano”. Egli obbedì e trovò degli alberi di sandalo di grande valore. Dopo qualche giorno egli rifletté: “Il sant’uomo mi ha chiesto di andare avanti. Non mi ha detto di fermarmi là”. Cos’ì, egli avanzò più profondamente nella foresta e trovò una miniera d’argento. Dopo qualche giorno, andò più avanti e trovò una miniera d’oro. Egli continuò e trovò miniere di diamanti e di pietre preziose. Divenne immensamente ricco”.

 

Per essere ricchi nella vita, cioè per vivere una vita elevata, abbiamo bisogno i camminare. Avanti! Avanti! Dovrebbe essere il nostro motto. Questo movimento non ha niente a che vedere con l’agitazione, è una aspirazione per la liberazione che ci condurrà forse dalla soglia finita della buona vita all’infinto di una vita elevata.

Ma per quanto tempo dobbiamo avanzare così? Fino a quando non saremo andati aldilà dei bisogni relazionali della vita, noi dovremo avanzare. Noi potremo fermarci dopo aver raggiunto questa situazione in cui non si pensa neanche più alla sicurezza, in cui non si sente più il bisogno di nessuna specie di felicità, non si ha più paura, non si ha più desiderio di avere sempre qualcos’altro, ciò che è lo stato supremo a cui ognuno di noi è destinato.

Il viaggio verso la vita elevata può essere lungo per quelli che non vogliono nulla intraprendere. Ma, per colui che ha energia, il viaggio è più rapido. Non permettiamo di essere derubati, di essere attirati verso la dimora di fianco alla via, ovvero dagli affari del mondo, nel nostro progresso verso la vita eterna.

La capacità dell’anima di affermarsi, ad affermare, qualunque siano le circostanze, la propria purezza, la gioia, l’unità e la pace è possibile con la realizzazione della vita.

 

Perché l’anima deve affermarsi? Come può farlo? Cerchiamo di comprenderlo studiando il problema centrale dell’esistenza umana.

Due processi fondamentali danno alla vita tutto il suo dinamismo e la sua diversità.

Uno è la lotta per l’esistenza. Ogni essere vivente, dall’ameba all’uomo, lotta costantemente per la sua sopravvivenza nel mondo.

Qual è la ragione di questa lotta?

Questa domanda ci porta alla seconda caratteristica fondamentale della vita. Nel linguaggio filosofico, l’impermanenza è chiamata il “non-essere”. Ogni essere vivente è minacciato dalla prospettiva di  non-essere.

La lotta per l’esistenza non è una semplice lotta per il cibo provocata da condizioni di vita difficili. Anche quando hanno abbondanza di cibo, tutti gli esseri viventi devono lottare contro i cambiamenti, sia interni sia esterni, come possiamo osservarlo ai nostri giorni. La lotta per l’esistenza significa infatti, la lotta per evitare il non- essere affermando l’essere. Ogni essere vivente lotta per affermarsi, per affermare la propria esistenza contro i cambiamenti, l’impermanenza, il non-essere.

Presso gli esser mani, la lotta per l’esistenza si situa principalmente al livello dell’ego.

Quando una persona non riesce ad essere riconosciuta o anche essere celebre, se viene biasimata o se si parla male di lei, è sconvolta perché ha l’impressone che l’esistenza del suo ego sia minacciata e non perché lo sia la sua esistenza fisica.

Quando l’ego è minacciato dal non-essere, tre tipi di razione si presentano:

1)      può affermarsi da sé, affermare il proprio essere, è il coraggio di essere;

2)      può cercare rifugio nel Signore. E’ il coraggio spirituale;

3)      oppure, invece di cercare rifugio nel Signore, l’ego può mettersi al riparo in una collettività.

 

L’ego che è incapace di affermarsi o di prendere rifugio in un potere superiore può soccombere al non-essere. Soccombere al non-essere può prendere diverse forme come la depressione, l’alcolismo, le nevrosi di ogni tipo ecc. La forma estrema è il suicidio.

Una delle reazioni più comuni è l’ansietà.

Se noi percepiamo, come è infatti il caso presso la maggior parte dei membri della nostra società moderna, un senso costante di ansietà, dobbiamo sapere che è a causa della minaccia del non-essere che affronta il nostro ego.

 

Qui dobbiamo fare un’importante distinzione tra l’ansietà e la paura:

-         la paura è la risposta dell’organismo a una situazione particolare. Ha un oggetto definito. Noi siamo, in generale, consapevoli della nostra paura e possiamo prepararci ad affrontarla;

-         l’ansietà, al contrario, non ha un oggetto definito, è un senso generale di insicurezza che si instaura in noi costantemente. Noi ignoriamo la maggior parte del tempo qual è la causa e il modo di sfuggirgli.

 

Una seconda distinzione può essere fatta tra l’ansietà patologica e l’ansietà esistenziale:

-         l’ansietà patologica è un risposta a certi elementi insoliti, come un’azione infamante, ecc. E’ una forma di nevrosi che, ricordo, è un modo di soccombere al non-essere. Non è nient’altro che odio o paura rimossi;

-         l’ansietà esistenziale è un’esperienza corrente nella vita normale. Può essere trattata dall’individuo stesso.

 

L’uomo moderno può essere confrontato con tre tipi principali di ansietà esistenziale:

-         l’ansietà del desiderio e della morte;

-         l’ansietà del vuoto e dell’assenza di significato dell’esistenza;

-         l’ansia della colpa e della condanna.

 

Benché questi tre tipi di ansia possono manifestarsi insieme, più spesso, ognuno di essi domina in un moment particolare della vita di un individuo. Così l’ansia di colpa è piuttosto dei giovani, quella del vuoto e della mancanza di senso dell’esistenza appare nell’età media e quella del destino e della morte diventa una questione seria della vecchiaia.

Quasi tutti, un giorno o l’altro, hanno a che fare con queste ansietà nel corso della propria vita.

 

Il senso di colpa è la negazione della purezza che è l’essenza dell’anima.

 

L’assenza di significato dato alla vita è la negazione della perfezione inerente all’anima. Così, la colpa, la mancanza di senso della vita e la morte sono tutte forme di non-essere (Assat).

La capacità dell’anima a affermare il proprio essere di fronte a queste forme di  non-essere è ciò che si chiama il coraggio di essere.

 

Secondo un certo punto di vista della filosofia, i termini anima e coscienza non sono nient’altro che la mente. Siccome la mente può essere influenzata dall’esperienze dei sensi e si modifica costantemente, non può fornire una base stabile al coraggio di essere.

Inoltre, il concetto dualista dell’anima crea un abisso insormontabile tra l’anima e Dio. Dio è il creatore, l’anima una creatura. Uno è il soggetto, l’altro l’oggetto.

Non possiamo mai essere uno. L’anima è l’essere individuale e Dio l’Essere Supremo e tra di loro si trova il vasto abisso di vuoto che è il non-essere.

Così, il non-essere è permanente e reale tanto quanto l’essere.

Ecco perché non è mai possibile superarlo o distruggerlo. L’uomo può esercitare il coraggio di essere, ma non può evitare, se non in maniera provvisoria, di non-essere-senso di colpa, non senso della vita, morte. Come ha detto Sartre, è una situazione “esnza uscita”.

Secondo il Vedanta, l’Anima Universale, l’Atman, è luminosa da se stessa, eternamente pura e piena di beatitudine. Totalmente diversa dalla mente, la trascende. Non può essere dunque toccata dall’impurità. L’impurità non può che contagiare la mente. Tutto ciò che è stato creato deve avere una fine. L’Anima Universale non è un’entità creata. Essa esiste in se stessa ed è una con Dio. E’ dunque immortale. Un tale concetto dell’anima rende il coraggio d’essere più a proprio agio.

 

Quando è confrontata con il senso di colpa, l’anima può dirsi: “Io sono pura e piena di beatitudine, il peccato non mi può colpire”. Quando è confrontata con il vuoto e il non senso della vita, l’anima può dirsi: “Io sono piena di coscienza e ogni esperienza è significativa per me”.

Quando è confrontata con il destino, l’anima può dirsi: “Io sono immortale e la morte non è che un avvenimento nella continuità della mia esistenza”.

 

Così, il concetto vedantico dell’Atman, permette all’anima individuale di superare tutte le forme del non-essere, affermando semplicemente la sua vera natura. Lei non ha bisogno di un salvatore per salvarla dal non-essere, semplicemente di una guida che può insegnarle come fronteggiare il non-essere, il senso di colpa, la mancanza di senso d’esistenza e della morte. Tutto il potere di cui l’anima ha bisogno è nascosto in lei, ciò che le serve, è qualcuno che passa risvegliare questo potere.

Così, ogni anima possiede in se stessa, il potere di esercitare il coraggio di essere e di affrontare le minacce del non-essere. Il Vedanta, tuttavia, fa un passo in più e nega il non-essere.

E’ in questa stessa negazione che è radicalmente diverso dagli altri sistemi di pensiero. Secondo il Vedanta, nessun abisso separa l’anima da Dio. La relazione con Dio non è del tipo “me –te”. Dio non è un oggetto totalmente altro. L’anima e Dio appartengono entrambi alla stessa categoria, l’Anima Universale. La prima è l’anima individuale (jivatman) mentre il secondo è l’Anima Suprema (Paratman). La relazione tra di loro può essere descritta come il “noi” trascendente. Poiché Dio è l’Anima di tutte le anime e che l’Essere divino riempie tutto l’universo, dove potrebbe esistere il non-essere? Sicuramente il Vedanta ammette l’esistenza del non-essere sotto la forma di Maya, che separa l’anima da Dio e all’universo. Ma, Maya stessa è irreale, e dunque, il non-essere è ugualmente irreale. Nel Vedanta, le tre ansietà esistenziali: colpevolezza, assenza di significato e morte, sono considerate, non come forme di non-essere, ma come prodotti dell’ignoranza.

La paura nasce unicamente se c’è un oggetto per spaventare.

Come dichiarano le Upanishads: “La dualità è l’unica causa della paura” (Brahman Upanishad 1-4-2).

Qui, dualità significa una separazione soggetto-oggetto. Ma l’essere divino, come soggetto eterno, riempie tutto lo spazio e non ne lascia alcuno come oggetto.

Si può concludere che la paura e l‘ansietà che noi percepiamo non sono reali, ma che sono causate dall’ignoranza.

Se si accetta questo punto di vista, la lotta principale della vita dovrebbe essere di eliminare l’ignoranza della vera natura dell’Anima Universale; è necessario combattere il non-essere in questo modo. E’ ciò che le quattro “grandi frasi”, le Mahavakyas, implicano:

-         “Io sono Brahman” (Aham Brahman asmi)

-         Questo Atman è Brahman (ayam Atman Brahman)

-         “Brahman è coscienza” (Prajnanam Brahman)

-         “Tu sei Quello” (Tat Tvam asi)

queste quattro affermazioni hanno per scopo di eliminare la nozione erronea del non-essere come spazio che separa l’anima da Dio. Quando questa idea sparirà, l’ansietà e la paura, che sono i suoi prodotti, cesseranno di ossessionarci. Non c’è nessun bisogno di lottare contro il senso di colpa, il non-senso e il destino, per tutta la vita.

E‘ possibile liberarsene completamente realizzando la propria vera natura che è l’Anima Universale luminosa.

La vita non è quella che sembra essere. Infatti, essa segue un modello, evidente per gli uni, incomprensibile per gli altri.

O ancora, essa segue più di un modello, nello stesso tempo. Allora, le persone prendono una parte di un modello e cercano di saldarla con un’altra. E, invariabilmente, trovano ciò che cercano, non quello che c’è in realtà.

Ciò che si chiama una vita realizzata, non nient’altro che diventare l’Infinito.